Sulle primarie tanto rumore per nulla
La competizione fa paura
ma non c'è altra strada per il rinnovamento
Il commento alla vicenda politica sarda di questi giorni, firmato dal direttore di questo giornale, è, nella sua chiarezza e lucidità, di quelli che non lasciano speranza.
Cosa abbiamo sperato?
Abbiamo sperato che la notizia di un possibile atto di razionalità e di responsabilità politica avrebbe potuto restituire alla nascita del PD in Sardegna la serena adesione di chi ci sta e il convinto rispetto di chi, come chi scrive, non è interessato.
Ma non vi è, non vi può essere, persona che si riconosca nel centrosinistra e non veda quale prospettiva avrebbe potuto aprire una nuova area politica, che raccogliendo una grandissima eredità storica e inserendosi in un processo che viene da lontano, già dalla stagione costituente dell'Italia post fascista, si proponesse di rivitalizzare quel patrimonio, non con gli strumenti di un maquillage di facciata, ma con la sostanza di una proposta integralmente nuova e moderna.
Liberare quell'area dalle croste del tempo, ecco il disegno. Liberarla anche dal peso di una classe politica che ha rilevanti meriti storici, per aver difeso la democrazia e i suoi fondamenti, che hanno riscontri là, in quella tensione morale e in quell'orgoglio profetico che li ha guidati in tanti anni di governo, ma che oggi non sa più interpretare questa spinta verso una modernizzazione dei metodi del fare politica, dentro, però, pienamente e con convinzione, i principi di una Costituzione perfettamente adatta a questa necessità.
La politica è una necessità e un dovere. La politica è un diritto.
Se chi la agisce appare inadeguato, egli può comunque vantare il consenso di chi lo ho investito di quel ruolo. Io sono ancora convinto, e l'ho scritto, che le responsabilità ricadano su chi elegge e su chi è eletto. Anche se, sarebbe cecità non vederlo, i margini di quella scelta appaiono sempre più costretti dentro binari voluti da una classe politica che non appare sempre titolare di una delega a fare, ma si ammanta di una sorta di investitura a priori, per essersi impossessata delle chiavi di volta che determinano i processi di scelta e selezione.
Ogni ricambio della classe dirigente credo debba avvenire nella serena valutazione di quella che si lascia, per cercare la continuità che non può che essere tipica di una successione in un contesto di certezza dei fondamenti e, alla pari, di un'esigenza che nuovi siano i moderni interpreti di quegli stessi fondamenti.
Se questo senso della continuità resta fuori dai processi di rinnovamento degli staff della politica, la prospettiva è traumatica e il ricambio porta con sé rigetto dei fondamenti, il buio e la caduta nei tempi dell'antidemocrazia, del golpismo, magari mascherato da populismo e da antistato e antipolitica, dallo schiacciamento dentro gli schemi semplificati di un consenso non consapevole.
In questo quadro io credo che l'eccesso di semplificazione non sia un progresso per la politica. Eccesso di semplificazione significa affidare il consenso alla risposta a slogan ingannevoli, che riducono tutto a suono, a messaggi verbali che non spiegano, e dicono di spiegare, invece, per via di quella loro apparente innocenza chiarificatrice.
La politica è anche fatica, e ricerca, è contrapposizione su progetti e idee, magari su ideali, è rappresentazione del possibile nella sua variegata fascinazione e nella sua inevitabile complessità.
È anche luogo e luoghi dove si fa e si svolge, e la piazza è una di quelli, ma non quella principe, perché la piazza rappresenta ma non elabora, la piazza muove gli spiriti e da sfogo ai sentimenti, ma dietro la piazza c'è sempre un disegno e se questo non c'è, ma resta solo mozione di affetti, quella piazza porta fuori dalla politica e, chissà, fuori dalla democrazia.
Chi ha scelto di far politica, anzi come dovrebbe, è stato scelto, assume su di sé una responsabilità morale altissima, a misura della quale sarà giudicata la sua azione.
Chi fa la politica deve rendere il conto del proprio lavoro, deve corrispondere all'esigenza che possa essere giudicato attraverso la pubblicità delle proprie scelte e dei propri comportamenti.
Il programma è quindi impegno anche e soprattutto morale, e la sua attuazione è dovere.
Per questo il fare politica è orientato al governo della cosa pubblica. Questo è un postulato troppo ovvio nella sua necessità logica, ma non sempre riscontrabile nei comportamenti di chi è innamorato della propria infallibilità e magari della propria forza distruttiva, e interpreta il ruolo pubblico come il luogo della rappresentazione della propria immodesta presunzione. E lo ama come la sede della propria ignavia.
La capacità di ascolto, la capacità di condividere le decisioni, non come atto di debolezza e riconoscimento di fragilità, ma come convinta ricerca di arricchimento dello spazio della propria attività, è virtù rara ma necessaria. Produce nuova ricchezza anche se non esonera dalla sintesi e dal dovere di decidere, perché se l'obiettivo della politica è il governo, questo richiede che ci sia quel momento in cui il ragionamento si traduce in scelta e decisione, e questo obbligo è in capo a chi è chiamato a ciò dalla propria funzione.
La politica che non decide, che si muove in un pantano per scontentare tutti non volendo dispiacere nessuno, è la negazione del dovere di governare.
Per questo un partito a vocazione maggioritaria, che dia solidità a maggioranze governanti, che tenga conto delle alleanze necessarie, ma sappia fare sintesi e rendere stabile e certa per la legislatura l'attività di un governo in base a un programma condiviso, mi pare importante per tutto il centrosinistra.
Ma questo copione sembra oggi non trovare in un processo chiaro, riconoscibile, i suoi interpreti. Appare bloccato in stallo perché il confronto tra chi si propone, tra quelli possibili, non appare guidato da un sereno, giusto, necessario confronto tra sensibilità diverse, ma piuttosto da un fastidio incomprensibile per il metodo stesso del confronto, che rappresenta solo il fisiologico risultato di quella idea affascinante di fare selezione del personale politico in una maniera condivisa e non di vertice.
Trovo personalmente poco comprensibile la drammatizzazione in atto in rapporto a questo metodo, perché la competizione mi sembra il vero terreno di rinnovamento, la novità vera e forse per questo la nomenklatura sembra arroccata a difesa dell'ultima spiaggia.
Ma non dobbiamo ingenuamente sorprenderci e possiamo invece augurarci che ormai qualcosa si sia messa in movimento in maniera irreversibile.