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Tra primarie e referendum, mesi di ingorgo...

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    00 14/09/2007 15:27
    ...e paralisi alla Regione: questa politica è il problema
    Due campagne elettorali in cinquanta giorni e a seguire cocci da rincollare, se possibile. Sarà uno stress traumatico e fuorviante quello che attende la politica regionale e gli elettori: con grandi possibilità di paralizzare l'attività legislativa e in parte quella governativa sulle grandi e concrete questioni che stanno davvero a cuore ai cittadini. L'ingorgo che in una settimana porterà due volte alle urne i sardi disponibili a frequentarle (le primarie per il Partito democratico e il referendum sulla legge statutaria) impegnerà i partiti allo spasimo, bloccherà i lavori del Consiglio, assorbirà le energie di tutte le forze politiche ma anche degli uomini di governo: a cominciare da Renato Soru, protagonista-bersaglio nelle due consultazioni.

    C'è stata una coincidenza sfortunata ma anche scellerata nel concentrare in otto giorni due confronti che alla fine si stanno legando su un unico nodo: Soru, appunto. Le scadenze democratiche sono sempre da rispettare. Ma c'è una prevalenza insostenibile delle questioni politicanti, estranee ai problemi veri, alle soluzioni da cercare, agli interessi dei cittadini da tutelare. Accade invece che temi prettamente partitici travolgano il resto, risucchiando i contenuti materiali nell'astrattezza confusa e rissosa che coinvolge una parte della società (minoritaria), allontana un'altra quota, lascia indifferenti un'altra fetta. Proprio perché tutto è in ballo tranne i problemi del lavoro, del carovita, dello sviluppo, della crescita economica e culturale della Sardegna.

    La politica diventa un Moloch che divora i temi sui quali i cittadini la vorrebbero impegnata esclusivamente: si nutre cannibalisticamente solo dei suoi. Poi ci si meraviglia che montino l'antipolitica e il populismo, che Beppe Grillo riempia le piazze fisiche e quella virtuale sconfinata di Internet. Il distacco dalla realtà, dai sogni e bisogni delle persone, appare enorme proprio perché anche nei passaggi più interessanti e coinvolgenti il dibattito si riduce a un'infinita, incomprensibile, irrazionale diatriba in cui conta la polemica per la polemica e al centro degli scontri ci sono sempre questioni di potere: di gruppo e personali.

    La nascita del Partito democratico era stata preceduta dalla speranza diffusa di una semplificazione del sistema politico. Un'aggregazione di centrosinistra che stimolasse un analogo processo nel centrodestra. Per limitare la frantumazione rissosa, creare i presupposti di una stabilità fondata su forze di dimensione europea in grado di sfuggire al potere di interdizione-coalizione-ricatto delle minoranze interne. All'atto pratico, si sta risolvendo nel trasbordo delle divisioni dei partiti fondanti in quello nuovo, veicolandovi conflittualità inestirpabili in uno scontro che da disegno unificante si trasforma in corrida. Purtroppo dall'altra parte, la Casa delle libertà è sempre un cantiere caotico, senza un progetto: la sua debolezza è speculare a quella del centrosinistra e vi contribuisce indirettamente.

    In Sardegna l'operazione-Pd passa per un match Soru-Cabras che lacera il poco che non era ancora ridotto in frantumi. Ma tutto si aggrava perché la corsa alle primarie si intreccia e si somma negativamente al referendum sulla legge statutaria. Ne abbiamo detto tutto il male possibile ben prima che venisse imposto da pochi consiglieri regionali: manteniamo la posizione. A che serve il Consiglio se fatta una legge si trova l'inganno per disfarla? Questo referendum non ci piace e i sardi lo subiscono. Soprattutto per la coincidenza che non può essere stata ignorata tra la sua celebrazione e la coincidenza con le primarie, fissate da tempo. Un doppio appuntamento che si risolverà in una doppia consultazione pro e contro Soru. Un ingorgo micidiale perché sarà attraversato e seguito da tensioni che potrebbero diventare esplosive e dissolventi: qualunque sia il risultato.

    Alcuni degli onorevoli che hanno voluto il referendum avevano votato a favore o si erano astenuti all'atto dell'approvazione della legge in Consiglio. Con grande coerenza, un mese dopo si rivolgevano al popolo per abrogarla, assieme ad altri fuori o in rotta col centrosinistra. Ormai la frittata è servita e a nulla serve recriminare ancora. Salvo su un punto. I proponenti avevano insistito per una data ravvicinata, addiritura in concomitanza con le primarie per il Pd. È un calcolo distruttivo e cinico: farà il loro gioco ma quanti danni provocherà alla Sardegna? Sarebbe bastato un accordo per spostare il referendum più avanti. Ma non avrebbe favorito il disegno tutto mirato (anche con alcune buone ragioni) a un doppio attacco simultaneo a Soru. La centralità del personaggio, che purtroppo non fa nulla per allentare le tensioni sul suo ruolo, rischia di diventare una frana che può seppellire lui ma anche l'intera politica regionale.

    Esattamente come nello scenario nazionale, l'etica della responsabilità è bandita dalle preoccupazioni dei partiti, leader e sottopancia. La politica che non affronta e risolve problemi, ne crea di nuovi scaricati sul Paese: diventa il problema principale. Il collo di bottiglia che blocca una società peraltro sbandata e largamente amorale, specchio fedele di una politica senza più riferimenti ideali. Oggi giorno la sua pena. Basta pensare a questo scandaloso leghista Calderoli, quello della “porcata” elettorale, che propone il maiale-day davanti alle moschee. Susciterà una nuova levata di scudi nel mondo islamico, in un fase di grandissime tensioni per il terrorismo infiltrato anche in Europa.

    Si lancia una gratuita, greve provocazione in aggiunta a quelle precedenti perché lo scandalo fa notizia, compatta gli estremismi: incuranti dei rischi che si fanno correre al Paese. Bossi prenderà le distanze? Figurarsi. Berlusconi ex primo ministro dirà basta con queste pagliacciate pericolose per la sicurezza nazionale? Men che meno. E il Fini ex ministro degli esteri riuscirà a trovare il coraggio di ripetere, come nel 1994, «con la Lega mai più, neanche un caffé»? No certo, correrà ancora a Gemonio, dove il Cavaliere e il Senatur per l'ennesima volta lo metteranno di fronte a scelte che potrà solo ratificare.

    Se questo è quel che passa il convento nazionale, quello sardo non è da meno. Il valore non è l'unità ma la divisione, non la faticosa ricerca di una comune responsabilità ma la volontà di allargare ed accentuare il dissenso: non fisiologico ma patologico, premeditato, coltivato con pervicacia. Se il sistema-Italia è fuori controllo, quello sardo lo sarà a breve scadenza, dopo le due prove alle urne. I morti trascinano a fondo i vivi disperati purché niente cambi nel peggio dominante.

    Fare di Soru il capro espiatorio, l'alibi salvifico, può anche pagare: lui concorre la sua parte e non solo per cattivo carattere ma ormai, chiaramente, per un calcolo spregiudicato. Ma che speranze maggiori può dare la sfilata dei moschettieri del cardinal Cabras, tutti personaggi da 25-30 anni sulla scena e ben decisi a calcarla ancora da dominatori? Nomi ormai consumati, delegittimati, senza autorevolezza: e pensare che ce sono parecchi che erano rispettati, prestigiosi, dotati di qualità e cultura politica. Ma ormai la loro elencazione tra i sostenitori di Cabras appare una galleria degli spettri. Peraltro tutti ben pasciuti: hanno avuto tutto e di più dalla politica e dalle istituzioni. Ora restituiscono alla comunità solo avanzi tossici per sopravvivere sulla nostra pelle.

    Non è che attorno a Soru ci siano qualità eccelse, personaggi esaltanti. Al contrario ci sono avanzi e detriti anche da questa parte: il livello medio è deprimente. Le poche qualità in campo sono soffocate dai giochi inesausti e corrosivi, che fanno terra bruciata attorno ai giovani, bloccano la selezione e il ricambio. L'accordo per evitare la guerra civile nel centrosinistra non è sfumato per caso. La rottura è frutto di precise strategia di conservazione, per poter consumare vendette e regolare conti, per difendere o conquistare il potere.

    In concreto, avremo settembre e ottobre occupati da uno scontro campale nella devastata maggioranza e con l'opposizione. Quindi la valutazione delle macerie post primarie e podt referendum, fibrillazioni che potrebbero portare anche alla dissoluzione della legislatura. La pulsione distruttiva arriverà lontano, nel tempo e a ogni livello politico e istituzionale. La chiamata alle urne è funzionale solo al tanto peggio tanto meglio. Lo sappiamo e lo sanno tutti: nessuno ha fatto niente per evitarlo. Congratulazioni sincere.

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    00 14/09/2007 15:30
    Febbraio 2008, Giunta Soru in agonia
    Meglio le elezioni subito,
    decide il segretario del partito che non c'è





    Dopo le bastonate di Bersani (preceduto dalla riforma universitaria di Luigi Berlinguer) alla mia abituale professione di ingegnere, proseguo nell'opera di riconversione al nuovo mestiere di chiaroveggente.

    14 ottobre 2007, ore 22: il mio ex collega ing. Cabras dedica dieci minuti a festeggiare il successo alle primarie, in compagnia di numerosi amici venuti in suo socccorso, e poi non so quante ore (si è scaricata la batteria della mia sfera di cristallo) a spiegare che ciò non doveva essere letto come un insuccesso di Soru, che la Giunta regionale non ne usciva indebolita, ma anzi rafforzata, etc. etc.

    15 ottobre. Rassegna stampa (sintesi): le primarie, per il modo in cui sono state gestite, hanno perso ogni appeal verso l'elettorato d'opinione, come testimoniato dalla bassa partecipazione, e quindi si sono ridotte ad essere un confronto di schieramenti. Soru, affetto dalla sindrome di Icaro, ha preteso di volare troppo alto e ci ha lasciato le penne, e poi… bla, bla, bla.

    21 ottobre, ore 23: il segretario del partito che non c'è, ing. Antonello, in una lunga diretta organizzata da Videolina per il referendum sulla Statutaria, si impegna per non so quante ore (mi sono addormentato) a convincere interlocutori e spettatori che la bocciatura della legge non vuol dire bocciatura della giunta Soru, che anzi ad una attenta lettura del voto ne esce rafforzata, etc., etc.

    22 ottobre. Breve rassegna stampa: Soru, già azzoppato dalle primarie della settimana prima, esce dal referendum sulla sedia a rotelle. Berlusconi: Prodi si deve dimettere.

    29 ottobre. L'assessore regionale al bilancio e programmazione riesce a convincere su mere ed i partiti della maggioranza a sotterrare l'ascia di guerra con argomentazioni che possono essere così riassunte: piantiamola di fare i fessi e sbrighiamoci ad approvare legge finanziaria e bilancio. Gli elettori non ci perdonerebbero il bis dell'anno scorso.

    16 novembre: il deputato Mauro Pili in una conferenza stampa annuncia raggiante il raggiungimento di 20.000 firme (il doppio del minimo di legge) per il referendum abrogativo della legge regionale 8/2004, dalla quale discende il Piano paesaggistico regionale. Berlusconi: l'84,23 per cento degli italiani chiede le dimissioni del governo Prodi.

    21 gennaio 2008. Approvate legge finanziaria e bilancio, ritemprato il corpo e lo spirito con una settimana bianca o alle Maldive, i professionisti della politica dissotterrano l'ascia di guerra.

    29 gennaio. A Cagliari, nel salone riunioni di via Emilia sede del PDS (?!?), un mio ex collega, ingegnere dalla vista lunga che si è riconvertito ben prima di me, viene molto applaudito per il ragionamento che appresso riassumo. È inutile che proseguiamo un'esperienza di governo regionale che ogni giorno di più assomiglia ad un'agonia, impantanato tra polemiche, defezioni, imboscate. Non diamo tempo al centro destra di organizzarsi e di fare il pieno di consensi con il referendum contro il piano paesaggistico. Giochiamo in contropiede e andiamo subito alle elezioni regionali, dimostrando che abbiamo a cuore gli interessi generali della Sardegna e che sappiamo correggere esperienze degenerate rispetto al programma iniziale.

    4 febbraio: la mia sfera di cristallo non riesce a sintonizzarsi su una scadenza così lontana. Serve un modello più potente, molto costoso. Comunicherò le nuove tariffe.

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    00 14/09/2007 15:31
    Sulle primarie tanto rumore per nulla
    La competizione fa paura
    ma non c'è altra strada per il rinnovamento





    Il commento alla vicenda politica sarda di questi giorni, firmato dal direttore di questo giornale, è, nella sua chiarezza e lucidità, di quelli che non lasciano speranza.

    Cosa abbiamo sperato?

    Abbiamo sperato che la notizia di un possibile atto di razionalità e di responsabilità politica avrebbe potuto restituire alla nascita del PD in Sardegna la serena adesione di chi ci sta e il convinto rispetto di chi, come chi scrive, non è interessato.

    Ma non vi è, non vi può essere, persona che si riconosca nel centrosinistra e non veda quale prospettiva avrebbe potuto aprire una nuova area politica, che raccogliendo una grandissima eredità storica e inserendosi in un processo che viene da lontano, già dalla stagione costituente dell'Italia post fascista, si proponesse di rivitalizzare quel patrimonio, non con gli strumenti di un maquillage di facciata, ma con la sostanza di una proposta integralmente nuova e moderna.

    Liberare quell'area dalle croste del tempo, ecco il disegno. Liberarla anche dal peso di una classe politica che ha rilevanti meriti storici, per aver difeso la democrazia e i suoi fondamenti, che hanno riscontri là, in quella tensione morale e in quell'orgoglio profetico che li ha guidati in tanti anni di governo, ma che oggi non sa più interpretare questa spinta verso una modernizzazione dei metodi del fare politica, dentro, però, pienamente e con convinzione, i principi di una Costituzione perfettamente adatta a questa necessità.

    La politica è una necessità e un dovere. La politica è un diritto.

    Se chi la agisce appare inadeguato, egli può comunque vantare il consenso di chi lo ho investito di quel ruolo. Io sono ancora convinto, e l'ho scritto, che le responsabilità ricadano su chi elegge e su chi è eletto. Anche se, sarebbe cecità non vederlo, i margini di quella scelta appaiono sempre più costretti dentro binari voluti da una classe politica che non appare sempre titolare di una delega a fare, ma si ammanta di una sorta di investitura a priori, per essersi impossessata delle chiavi di volta che determinano i processi di scelta e selezione.

    Ogni ricambio della classe dirigente credo debba avvenire nella serena valutazione di quella che si lascia, per cercare la continuità che non può che essere tipica di una successione in un contesto di certezza dei fondamenti e, alla pari, di un'esigenza che nuovi siano i moderni interpreti di quegli stessi fondamenti.

    Se questo senso della continuità resta fuori dai processi di rinnovamento degli staff della politica, la prospettiva è traumatica e il ricambio porta con sé rigetto dei fondamenti, il buio e la caduta nei tempi dell'antidemocrazia, del golpismo, magari mascherato da populismo e da antistato e antipolitica, dallo schiacciamento dentro gli schemi semplificati di un consenso non consapevole.

    In questo quadro io credo che l'eccesso di semplificazione non sia un progresso per la politica. Eccesso di semplificazione significa affidare il consenso alla risposta a slogan ingannevoli, che riducono tutto a suono, a messaggi verbali che non spiegano, e dicono di spiegare, invece, per via di quella loro apparente innocenza chiarificatrice.

    La politica è anche fatica, e ricerca, è contrapposizione su progetti e idee, magari su ideali, è rappresentazione del possibile nella sua variegata fascinazione e nella sua inevitabile complessità.

    È anche luogo e luoghi dove si fa e si svolge, e la piazza è una di quelli, ma non quella principe, perché la piazza rappresenta ma non elabora, la piazza muove gli spiriti e da sfogo ai sentimenti, ma dietro la piazza c'è sempre un disegno e se questo non c'è, ma resta solo mozione di affetti, quella piazza porta fuori dalla politica e, chissà, fuori dalla democrazia.

    Chi ha scelto di far politica, anzi come dovrebbe, è stato scelto, assume su di sé una responsabilità morale altissima, a misura della quale sarà giudicata la sua azione.

    Chi fa la politica deve rendere il conto del proprio lavoro, deve corrispondere all'esigenza che possa essere giudicato attraverso la pubblicità delle proprie scelte e dei propri comportamenti.

    Il programma è quindi impegno anche e soprattutto morale, e la sua attuazione è dovere.

    Per questo il fare politica è orientato al governo della cosa pubblica. Questo è un postulato troppo ovvio nella sua necessità logica, ma non sempre riscontrabile nei comportamenti di chi è innamorato della propria infallibilità e magari della propria forza distruttiva, e interpreta il ruolo pubblico come il luogo della rappresentazione della propria immodesta presunzione. E lo ama come la sede della propria ignavia.

    La capacità di ascolto, la capacità di condividere le decisioni, non come atto di debolezza e riconoscimento di fragilità, ma come convinta ricerca di arricchimento dello spazio della propria attività, è virtù rara ma necessaria. Produce nuova ricchezza anche se non esonera dalla sintesi e dal dovere di decidere, perché se l'obiettivo della politica è il governo, questo richiede che ci sia quel momento in cui il ragionamento si traduce in scelta e decisione, e questo obbligo è in capo a chi è chiamato a ciò dalla propria funzione.

    La politica che non decide, che si muove in un pantano per scontentare tutti non volendo dispiacere nessuno, è la negazione del dovere di governare.

    Per questo un partito a vocazione maggioritaria, che dia solidità a maggioranze governanti, che tenga conto delle alleanze necessarie, ma sappia fare sintesi e rendere stabile e certa per la legislatura l'attività di un governo in base a un programma condiviso, mi pare importante per tutto il centrosinistra.

    Ma questo copione sembra oggi non trovare in un processo chiaro, riconoscibile, i suoi interpreti. Appare bloccato in stallo perché il confronto tra chi si propone, tra quelli possibili, non appare guidato da un sereno, giusto, necessario confronto tra sensibilità diverse, ma piuttosto da un fastidio incomprensibile per il metodo stesso del confronto, che rappresenta solo il fisiologico risultato di quella idea affascinante di fare selezione del personale politico in una maniera condivisa e non di vertice.

    Trovo personalmente poco comprensibile la drammatizzazione in atto in rapporto a questo metodo, perché la competizione mi sembra il vero terreno di rinnovamento, la novità vera e forse per questo la nomenklatura sembra arroccata a difesa dell'ultima spiaggia.

    Ma non dobbiamo ingenuamente sorprenderci e possiamo invece augurarci che ormai qualcosa si sia messa in movimento in maniera irreversibile.

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    centrosardegna
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    00 15/09/2007 14:36
    C'è il golpe, morte al tiranno
    Un unico fascio di forze
    per Cabras contro Soru
    alle primarie e al referendum






    Genti di Sardegna, fratelli, popol mio: c'è il golpe, dormite fuori casa, preparate resistenza e barricate, tirate fuori le armi nascoste per difendervi dall'oppressione: preparatevi a versare il vostro sangue per la libertà e la democrazia. Chiamiamo i barracelli, le camicie nere e quelle verdi leghiste, quelle azzurre e le altre al garofano, i quattro mori scendano dalle bandiere per schierarsi al fianco degli indomiti benché appassiti biancofiore.

    Non possiamo ricorrere alla Forestale, come nel fallito golpe Borghese: qui in Sardegna, è controllata dal tiranno che ci ha tolto la libertà senza che ce ne accorgessimo. I carabinieri sono legittimisti e dunque sospetti. La polizia peggio che mai, i finanzieri pure. Non resta che stringerci attorno ai capi politici dell'ora e sempre resistenza, andare in montagna: chi sta a Cagliari, a Monte Urpinu o a Monte Claro, alla Sella del diavolo, cercando rifugio nelle grotte di Cala Fighera e dei Gabbiani. Armi, soprattutto: pistole ad acqua, fucili a pompa (di sentina) strappati ai bambini, doppi razzi perforanti prestati da Mazinga, spade-laser concesse da Spielberg di “Guerre stellari”, il terribile gladio di Russel Crowe nel Colosseo.

    Disarmati fino ai denti, sabato prossimo tutti alla Fiera: per l'ultima festa della democrazia prima di affrontare la lotta dura senza paura. Dal palazzo dei congressi, via alla controguerriglia contro il “colpo di Sta(ut)o” che da via Roma a viale Trento sta mettendo i sardi in catene come sotto il dominio romano. L'oppressore non venit dae su mare. È un nostro rinnegato: un Quisling (il norvegese che si vendette a Hitler, dal 1940 sinonimo di traditore della patria) nato a Sanluri, emigrato e purtroppo tornato. È lui, l'uomo che odio e che combatterò con i patrioti che l'hanno smascherato e si apprestano a guidarci nella lotta arma. Non c'è bisogno di costituire un Cls, un comitato di liberazione sardo. C'è quello referendario, nostro stato maggiore anche per la guerriglia. Non siamo più soli davanti al despota: solo male accopagnati.

    Perché, fuor dalla celia, uno si sganascia dalle risate e guarda incredulo i nostri novelli Parri, Lussu, Longo, Mattei apostoli partigiani della libertà. Tra loro ci sono eccellenti professionisti. Ma anche flaccidi faccendieri in compagnia di pisciafreddo ora di lotta e sempre di governo e potere. Altri dalla zazzera bionda transumanti perpetui e saltafossi di cinque partiti in attesa del prossimo. Qualcuno di temibile gelo mamoiadino, rotto a tutte le astuzie e trame politiche. Associato al lancillotto macomerese con gli occhi intelligenti da finto san Luigi Gonzaga, a braccetto con la vezzosa omonima di una celebre nuotatrice. Mancava, vuoto clamoroso, il superavvocatone delle cause perse che conta di vincere appena 65 milioni di euro alla lotteria legale contro la Regione. L'altra volta c'era, non poteva privarcene il buon Andrea Pubusa, animatore del Cls: ha conosciuto momenti di maggior lucità ed equilibrio.

    Capite, quando un comitato referendario calato dall'alto (si fa per dire) di 15 onorevoli da 20 mila euro al mese, impugna una legge che in gran parte ha approvato un mese prima o sulla quale si è astenuto e ora annuncia la lotta contro “il colpo di Stat(ut)o”, chiedendo mobilitazione contro Soru-Pinochet, beh, uno si gira le balle. C'è un limite a ogni pazienza e soprattutto alla ridicola esagerazione giocata su un facile gioco di parole. Non si scherza con l'evocazione di golpe. Personalmente quasi non sopporto più Renato Soru. Gi unici che possono indurmi a reggerlo ancora, turandomi il naso ma non la boccaccia, sono i viscerali anti-soriani ante e post-marcia. Sono talmente prevedibili, scontati, strumentali, fastidiosi negli eccessi da logorare e sputtanare le loro battaglie nelle parti condivisibili e sacrosante.

    Ieri s'era appena scritto che il complesso gioco primarie-referendum avrebbe saldato tutto in una sola trama da giocare - apparentemente divisi ma uniti nell'obbiettivo-bersaglio - nelle doppia campagna elettorale concentrata nelle urne tra il 14 e il 21 ottobre. Si poteva aspettare almeno altre 48 ore dimostrare che era esattamente così? L'ovvietà delle intenzioni avrebbe sconsigliato la simultanea discesa in campo delle guardie del cardinale (Cabras-Richelieu? non esageriamo), col giustacuore dei nomenklati del potere eterno, e i moschettieri referendari che assomigliano come gocce d'acqua - per storie politiche e di potere, avversari o alleati, alternativamente - alle prime.

    L'accostamento è micidiale: biografie esemplarmente e specularmente negative. Da una parte, con Cabras: Tore Ladu, Paolo Fadda, Gianpiero Scanu, Giovanni Giagu, Emanuele Sanna, Antonangelo Casula, Silvio Cherchi, Giacomo Spissu e vari affini e coloniali d'antan. Tutti personaggi tra i 20-30 anni di comando nel tuorlo del potere, i signorotti delle tessere, del governo, del sottogoverno (molti riuniti nella cupola del Casic: presente al completo nella convention alla Fiera pro-cardinale, ora pro nobis).

    E sul fronte degli anti-golpisti, chi si vede, a parte il libertario irregolar-gruppettaro benché ottimo docente Andrea Pubusa? Un Mariolino Floris, il Bebetto Ballero maitre d'affaire, più Peppino Balia da portaborse di Emidio Casula a improbabile leader in rotta anche con parte dei suoi, il Marracini che cambia partiti e resta fedele solo allo shampoo ossigenante, il Mosé Maninchedda che odia Soru perché lo ha eletto consigliere e deve scontare la cortesia. Più, dietro le quinte personaggi vari, alcuni di grandissima onorabilità morale, altri sine nobilitate ma ugualmente di lunghissimo corso nei partiti e nelle istituzioni.

    Allora, giustapponendo la galleria degli spettri pro-Cabras con l'ambiguo fronte sinistra-destra referendario, si ricompone un quadro politico anni 60-70-80 di tutti quelli che a rotazione, in ruoli alternati ma conniventi, hanno gestito la politica, la Regione, il potere, le elezioni per il Parlamento e tutto il resto. È un'operazione che dà risultati strabilianti. I due gruppi, accostati inesorabilmente, costituiscono un unico fascio di forze e personaggi uniti dalla comune avversione per Soru, dall'obbiettivo di abbatterlo (nelle primarie per il Pd e col referendum ad personam) per ripristinare tutti insieme il controllo osceno che hanno esercitato su banche, enti, fondazioni, consorzi oltreché in Regione e Consiglio. Grazie all'onesta battaglia di opposizione di Pubusa e non molti altri libertari, che fanno il gioco del re di Prussia ma mostrano di non capirlo, accecati da un'avversione personale esagerata.

    Su questo giornale abbiamo ospitato tutte le posizioni favorevoli e contrarie al referendum. Lo faremo ancora. Ma non senza aver prima gridato che è una vergogna parlare di colpo di stato (specie da giuristi, ignorando i soliti mestatori e azzeccagarbugli), per una legge uguale a quelle vigenti in tante altre regioni. Approvata anche con l'astensione dalla maggioranza dei referendari in Consiglio: per poi imporci la consultazione che costerà almeno cinque milioni di euro, non raggiungerà il quorum ma il cui risultato sarà comunque utilizzato per delegittimare Soru.

    Ma non basta. Questo stesso gruppo aveva organizzato un convegno per contestare l'opinabilissimo referendum elettorale di Mariotto Segni. Che però, con i suoi, si è zappato ottocentomila firme, un decimo in Sardegna. I nostri 15 onorevoli hanno dovuto fare, a piedi o in auto blu, la traversata del deserto da via Roma a piazza Repubblica, per depositare in Tribunale la richiesta con le firme che in altri tempi non sarebbero state accettate sotto una cambiale. Fin qui va bene, anzi malissimo. Ma sentirli evocare il colpo di stato è una roba emetica, contro la quale non si può ragionare in termini pacati.

    Hanno un'ottima ragione: la norma sul conflitto di interessi è inaccettabile, da rifiutare e cambiare. Lo abbiamo riconosciuto da tempo e confermiamo. Ma da qui a dire che l'insopportabile Soru è un tiranno liberticida. Che la democrazia e la patria sono in pericolo (se la legge statutaria venisse abrogata, il presidente della Giunta avrebbe anche maggiori poteri) è uno scandalo che non si può accettare senza reagire. Vogliono destabilizzare Soru e tutto, in unità d'intenti con Cabras, i padrini e le guardie di Cabras, facciano pure. Il nuovo, unitario fascio di forze e personaggi conflittalmente (?) alleati contro Soru, si muova come gli pare: per consegnare il Pd al cardinale e abbattere in primarie e referendum il suo avversario.

    Va tutto bene: tranne che pretendano di prenderci per i fondelli come fossimo popolo bue. Cornuti sì, ma non ci faremo mazziare dalle loro grottesche evocazioni golpiste. Come tanti, quasi non sopporto più Soru, che fa il gioco dei peggiori. Ma sono ancor più insopportabili e indigeribili i suoi nemici viscerali: invidiosi, incapaci di tenerne a freno l'arroganza e dunque buoni a farci lucrosi baratti e/o demonizzarlo anziché contrastarlo: come fanno quelli dalla schiena dritta. Ma ce n'è così pochi…

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    00 16/09/2007 09:33
    Referendum, tra inganni e demagogia
    assurdo legarlo alle primarie Pd
    Se vota meno del 33%, legge in vigore
    di Pietro Ciarlo




    Il 21 ottobre, su richiesta di 19 consiglieri regionali, si svolgerà un referendum sulla legge statutaria della Regione Sardegna. Si tratta di una legge che riforma l'ordinamento della Regione adeguandolo alla nuova forma di governo fondata sull'elezione diretta del Presidente. La legge è complessa, per cui è naturale che vi sia un certo deficit informativo. Il referendum doveva essere anche l'occasione per colmare tale deficit, ma purtroppo, come era prevedibile, le cose non stanno andando così.

    Il dibattito referendario per molti, per troppi, è diventato un palcoscenico dove alzare la voce e ricavare facili protagonismi a scapito di un dibattito politico corretto, fondato sulla comprensione degli argomenti. Ancora una volta la strada scelta è quella della demagogia. La lusinga e l'inganno si sono spinti fino a creare confusione sugli aspetti procedimentali più evidenti.

    Innanzitutto, va ricordato che la legge statutaria, per norma costituzionale, è stata approvata a maggioranza assoluta dei consiglieri regionali. Questa maggioranza qualificata è stata prevista a fini di garanzia: per le leggi più importanti l'ordinamento richiede un consenso particolarmente esteso. La legge statutaria è stata approvata con tale maggioranza appena sei mesi fa, dopo un lungo dibattito pubblico. Ognuno ha le idee che vuole ed è, ovviamente, libero di cambiarle quando crede, ma il senso delle istituzioni richiede toni pacati, soprattutto quando si controverte di decisioni assunte poco tempo prima in virtù di procedimenti garantiti e garantisti in massimo grado.

    Tecnicamente il referendum del 21 ottobre è un referendum sospensivo, nel senso che la sua previsione nell'ordinamento, cioè la possibilità di richiedere l'indizione del referendum stesso, sospende l'entrata in vigore della legge. In altre parole, la legge viene pubblicata, a scopo notiziale, ma non viene promulgata. Il quesito referendario riguarda l'attuazione o meno di quest'ultimo adempimento. Dunque, la legge statutaria, già regolarmente approvata dal Consiglio regionale, «non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi», cioè dei voti validamente espressi, naturalmente all'interno di una procedura referendaria che deve essere a sua volta valida. Così dispone l'articolo 15 dello Statuto della Sardegna come modificato dalla legge costituzionale n. 2 del 2001.

    Peraltro questo articolo dello Statuto rinvia alla legge regionale l'ulteriore disciplina del referendum stesso. Si tratta della legge n. 21 del 2002 che disciplina il referendum sulle leggi statutarie e a sua volta rinvia espressamente alla legge regionale n. 20 del 1957 che disciplina in via generale il referendum. In particolare viene richiamato anche l'articolo 14 di questa ultima legge dove si dichiara «non valido il referendum se non vi ha partecipato almeno un terzo degli elettori». Si tratta del cosiddetto quorum strutturale.

    La funzione di questo quorum è molto importante. Esso, infatti, evita che la decisione referendaria possa essere adottata da un numero del tutto esiguo di elettori. Nel nostro ordinamento l'unico referendum a non prevedere un quorum minimo di partecipanti è quello per la revisione costituzionale. Non a caso tale omissione viene considerata un grave difetto di questo procedimento. Per farla breve, se nel caso del referendum sulla legge statutaria andasse a votare meno di un terzo degli elettori, il referendum non sarebbe valido, cioè sarebbe privo di qualsiasi effetto e il Presidente risulterebbe obbligato alla promulgazione della legge.

    Molti rappresentano i contenuti della legge statutaria in modo falso e tendenzioso. Comunque, le opinioni nel merito di tale legge possono essere diverse. Quelli qui esposti sono dati giuridici certi del procedimento referendario. I convincimenti politici sono una cosa, la verità istituzionale un'altra. Per dirla in chiaro, non credo opportuno che il Presidente della Regione si candidi alla segreteria politica del maggiore partito della coalizione che lo esprime. Ma credo anche che sia politicamente sbagliato e istituzionalmente non corretto legare le questioni della legge statutaria a quelle della competizione per la segreteria regionale del Partito democratico.

    * docente di Diritto costituzionale,
    già preside della facoltà di Giurisprudenza all'Università di Cagliari

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    00 18/09/2007 15:04
    Il presidente sposa gli umori popolari
    «Anche mia figlia firma per Grillo»
    Statutaria contro un Consiglio con 100 eletti





    «Quelli che si sono messi in fila per firmare con Grillo non sono antipolitica, chiedono invece il rinnovamento e indicano la volontà di tornare a dire qualcosa sulla politica»: i 300mila portati in piazza dal comico genovese non spaventano Renato Soru, presidente della Regione e candidato per la segreteria del Partito democratico sardo. Il referendum sulla legge statutaria del 21 ottobre lo preoccupa invece di più perché potrebbe cancellare «una legge che abbiamo discusso e votato per due mesi», per restare al sistema attuale, «dove i poteri non sono specificati e ci troviamo col rischio di avere 100 consiglieri regionali dopo le prossime elezioni», cancellando anche «l'unica legge in Italia sul conflitto di interessi».

    Il presidente, senza dire una parola sul concorrente del 14 ottobre, Antonello Cabras, conclude da par suo la manifestazione d'esordio dei Comitati per Soru con Veltroni, con un discorso lungo ma abile a intercettare gli umori del momento e sintonizzarsi con una platea di oltre trecento persone assiepate nel salone del Caesar's Hotel a Cagliari.

    Salta subito agli occhi che, in mezzo a tanti soriani della prim'ora, fanno capolino molti ragazzi, forse attirati dalla presenza del filosofo alla moda, Alessandro Aresu. Al giovane intellettuale che, vestito di bianco e in short come se fosse appena sceso da una gita in barca, approfitta per presentare il suo instant book intitolato “Il viaggio della politica” - guarda caso il titolo della serata - fanno compagnia altre due promesse: l'economista dell'ateneo cagliaritano Vittorio Pelligra e la “giovane democratica” Rossana Deplano, insieme allo scrittore Flavio Soriga che propina alla platea (divertita) una delle sue “letture creative”, sorta di ragionamenti a voce alta e ruota libera.

    «In Italia sta succedendo che 300mila persone si mettono a firmare per una legge e che un libro come “La casta”, non un romanzo d'avventura, vende 700mila copie», osserva Soru. «Anche mia figlia è andata a firmare, e ha cercato di convincermi», aggiunge. Quelli del V-day non sono persone «che si riconoscono in una parolaccia ma nella capacità di indignarsi» e «ringrazio Grillo perché, a parte la brutalità, la semplificazione e le cose non condivisibili, i ragazzini tornano a interessarsi di politica e non a parlare di Corona o ad aspettare i presentatori televisivi fuori dagli studi». Si sono messi in fila per «chiedere il rinnovamento della politica, esprimendo la volontà di dire qualcosa: e questa non è antipolitica, come dicevano anche di me tre anni fa».

    L'indignazione, secondo Soru, può essere invece il primo passo verso «l'assunzione della responsabilità individuale e la decisione di mettere in gioco la propria faccia per servizio a un progetto comune». Inoltre, con l'occasione data dalla fusione «di tradizioni e pensieri tanto radicati», la nascita del Pd può essere il momento per «riportare dentro la politica questa indignazione e questa voglia di cambiamento», sempre partendo dalla responsabilità e dal desiderio di impegnarsi di ciascuno.

    Secondo punto focale del discorso da candidato: il referendum sulla statutaria del 21 ottobre. «Il Consiglio regionale ha votato questa legge a maggioranza: ci abbiamo messo due mesi per discuterla, è possibile che dopo tre mesi non vada più bene? Allora per cosa abbiamo discusso?», si chiede retoricamente Soru. I promotori del referendum «vogliono cancellarla «per tornare al sistema di oggi, dove i poteri del Consiglio regionale non sono specificati, dove c'è il rischio di trovarci con 100 consiglieri regionali dopo le prossime elezioni e dove si torna al numero di assessori che era in uso fino agli anni '70, cioè otto».

    I poteri del presidente, «che dicono siano accentrati», riprendono quanto detto «dall'articolo 95 della Costituzione sul presidente del Consiglio dei ministri». In più, il testo affronta un tema che «in 60 anni non era stato mai normato», cioè i casi di ineleggibilità e incompatibilità: «Nella scorsa legislatura abbiamo avuto un consigliere regionale che era anche presidente di provincia (Mario Diana, NdR) e in questa alcuni parlamentari che, per diversi mesi, non si capiva bene cosa fossero: è giusto avere una legge che dica che questi casi sono impossibili».

    Il Comitato per il No, «che tra i suoi componenti ha un avvocato che ha chiesto 70 milioni di euro alla Regione», è contro la legge anche «perché non regolerebbe il conflitto di interessi». Falso, ribatte il presidente: questo testo, scritto con la consulenza di Guido Rossi e Gianmario Demuro, «riprende quello che voleva fare il centrosinistra a livello nazionale, e che non è stato capace di attuare», cioè il blind management agreement. La Sardegna ha «una legge più bella delle altre regioni, che non dicono nulla sul conflitto di interessi, mentre la nostra è il primo caso in Italia». Tra le altre cose, Soru auspica così che «il Pd sia in grado di esprimersi da subito sulle cose buone fatte dal Consiglio regionale». Ma il Partito democratico, di cui «il 14 ottobre si sceglieranno i segretari, mentre il giorno dopo si inizierà a fare il partito vero e proprio», ha bisogno di «avere 100mila padri che partecipino sia alle primarie sia successivamente».

    Nella ridda di interventi, filmati e messaggi che avevano preceduto Soru, tra i quali quelli dell'assessore regionale degli Affari generali Massimo Dadea, del capogruppo dell'Ulivo a Cagliari Marco Espa, del capogruppo di Progetto Sardegna Chicco Porcu, da segnalare quello scoppiettante del neuroscienziato Gianluigi Gessa. «Mi auguro che vinca Antonello Cabras», scherza il professore. «Ha un curriculum impressionante, cariche politiche ed elettive da primato, quasi un medaglione: altro che Breznev! È l'uomo migliore che i Ds potevano presentare e possiamo sperare soltanto in una campagna elettorale nel rispetto dell'avversario», dice.

    Gessa spiega le perplessità dei gruppi dirigenti dei partiti verso la volontà rinnovatrice di Soru parlando di «pulizia etnica che preoccupa quanti invece vorrebbero essere alla Conferenza di Yalta, cioè Churchill, Stalin etc». A quelli che chiedono di «ridurre stipendi e numero dei consiglieri», il professore risponde beffardo: «A me va benissimo, tanto io non ci sarò». Comunque, fino al «14 ottobre sarà una battaglia senza pace, ma consoliamoci: solo nei cimiteri c'è la pace».

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    00 18/09/2007 15:05
    Calvisi e Dadea stemperano i toni
    Ora allarma tutti l'escalation
    di polemiche distruttive sulle primarie





    A poco meno di un mese dalle primarie del 14 ottobre, va in scena un grande classico della politica: i fratelli coltelli. Nonostante tutte le raccomandazioni, la campagna elettorale per la segreteria del Partito democratico sardo già scivola verso lo scambio di accuse e i colpi bassi. Sono soprattutto i Democratici di sinistra a ritrovarsi nella bufera: il partito è spaccato in due, tanto che ieri l'ala schierata con Soru alle primarie ha disertato la direzione generale del partito a Tramatza.

    Nello scorso fine settimana, i sostenitori di Antonello Cabras, su tutti i leader regionali Giulio Calvisi e Paolo Fadda, hanno denunciato le telefonate partite dai palazzi regionali per spingere molti primi cittadini a schierarsi con Soru. Le accuse sono state respinte dagli assessori, anzi è stato lo stesso Soru ad assicurare che «in questi anni siamo stati attenti a tenere distinta la nostra responsabilità istituzionale e amministrativa dall'attività di partito».

    Ma era solo il primo round: durante l'incontro dei soriani di ieri a Cagliari, l'assessore degli Affari generali Massimo Dadea, diessino, si toglie qualche sassolino dalla scarpa con eleganza. Prima parafrasa Walter Veltroni: «Dobbiamo costruire ponti per superare le divisioni, le differenti posizioni e il nervosismo che rischia di inasprire il confronto: non possiamo accentuare le divisioni all'interno del nuovo partito». L'assessore invita al «confronto libero e di idee», che non è una battaglia finale «tra chi è abbarbicato al vecchio e chi si sforza di produrre il rinnovamento».

    Noi vogliamo, spiega il braccio destro di Soru, «continuare il rinnovamento, estendere questo spirito al sistema dei partiti perché sennò i fautori dell'antipolitica e del qualunquismo avranno il sopravvento. Dobbiamo promuovere il ricambio generazionale nel Pd», perché è ora che si affermino «nuove classi dirigenti: nella politica regionale, oggi pesano gli stessi di 25 anni fa». Per il resto, «rimandiamo le stupidaggini e gli insulti a chi vuole evitare il confronto», conclude Massimo Dadea.

    Da Tramatza, dove si è svolta la direzione regionale Ds, monca dei sostenitori di Soru capeggiati dal capogruppo in Regione Siro Marrocu che hanno contestato l'opportunità della riunione, torna alla carica il segretario della Quercia Giulio Calvisi. «Non ho insultato nessuno e agli insulti non rispondo: la risposta politica è arrivata dal presidente e io a quella mi attengo, perché recepisce la preoccupazione che avevamo espresso sulla confusione di ruoli», dice.

    Calvisi puntualizza che non si è trattato di accuse, ma di «un appello ad assessori e presidente sui loro zelanti collaboratori», dopo «aver recepito le lamentele degli amministratori pubblici»: se poi qualche assessore «si sente zelante collaboratore, evidentemente ha la coda di paglia». Comunque gli assessori, «prima di parlare, dovrebbero ricordare che sono stati nominati e non da una riunione di un organismo dirigente o, come me che sono segretario del partito dopo due congressi in cui hanno partecipato migliaia di persone: per questo dovrebbero solo tacere».

    «Bisogna darsi una regolata ed evitare che ci sia una campagna conflittuale e tesa: il governo faccia il governo, poi nelle sedi competenti come circoli e comitati svolga la sua campagna elettorale». Perciò, conclude il segretario diessino, «il problema degli insulti riguarda gli altri, anche se devo dire che quando ci si insulta tra compagni di partito ci si sta insultando da soli». Poi «vediamo cosa succede dopo il 15 ottobre».

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    centrosardegna
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    00 18/09/2007 15:06
    Coerenti con il limite ai mandati elettivi
    blocchiamo il cumulo di cariche
    Soru e Blair, confronto improponibile





    Mettere un vincolo al numero di mandati che un politico può accumulare nel tempo è un'idea che merita di essere discussa. È un metodo certamente intuitivo ma anche molto indiretto per favorire il ricambio di classe dirigente. Funziona? Non funziona? Non credo lo sappia nessuno: ci vorrebbero approfondimenti che non si faranno perché, come al solito, non rispettano i tempi della “politica”.

    Qualunque sia la vostra opinione, sorge un problema. Chi ha certezze granitiche sui danni prodotti dall'accumulo nel tempo di cariche e mandati, non dovrebbe preoccuparsi anche di fronte alla possibilità che la stessa persona accumuli cariche nello stesso istante di tempo?

    Massimo Dadea, uno di quelli che non mostrano preoccupazioni per questo secondo aspetto della questione, dà una spiegazione che altri sembrano condividere. Dice, in sostanza: dov'è il problema? «Tony Blair, in Inghilterra, da leader del partito laburista, è diventato primo ministro» (Nuova Sardegna del 28 agosto).

    Giusto. Solo che ora il primo ministro si chiama Gordon Brown. Il dettaglio è importante perché ci ricorda che il passaggio da Blair a Brown (come quello precedente dalla Thatcher a Major) non ha richiesto lo scioglimento del Parlamento.

    Mica piccola come differenza. Infatti, quello inglese è un sistema parlamentare, ben distante dal principio che regge il nostro “presidenzialismo regionale”, il simul stabunt simul cadent.

    In altre parole, qualcuno potrebbe sostenere quanto segue. Il sistema inglese può permettersi un così alto accumulo di potere in una persona perché la legittimazione di quel potere è nelle mani del Parlamento, che la dà e la può revocare. Il primo ministro trae la sua legittimazione non da un'elezione diretta ma dall'essere (in quanto leader del partito che va al governo) capo parlamentare della maggioranza.

    Quando nella maggioranza maturano dubbi sulla sua capacità di realizzare il “manifesto” votato dagli elettori, parte la sfida per la leadership. Se vince lo sfidante, si cambia il leader della maggioranza e di conseguenza il premier, e la legislatura continua per consentire la realizzazione del programma di governo.

    Dunque, Blair (o Brown) c'entrano poco con le nostre questioni. Nel sistema delle regioni italiane (non invece nella forma di governo nazionale), il ruolo di grandissimo rilievo affidato al Presidente trae origine dall'elezione diretta e dalla conseguente regola del simul stabunt simul cadent. Con tutta evidenza, intorno a questo ruolo non si è ancora trovato il modo di creare un bilanciamento di poteri soddisfacente.

    In questo particolare contesto, citare Blair (o Veltroni) ha poco senso. L'accumulo di cariche dovrebbe invece preoccupare tutti, compreso chi lo propone. Perché tanto potere decisionale nelle mani di una sola persona rappresenta un rischio, un costo che si chiede a noi tutti di pagare.

    In certe situazioni, possibilmente eccezionali, rischi di questo tipo si possono correre. Purché non si cerchi di nascondere il problema dietro improbabili confronti, e soprattutto purché, oltre a dichiarare pubblicamente per quanto tempo si vuole sottoporre il sistema a quel rischio, si specifichino con chiarezza i benefici che ne dovrebbero derivare.

    Sarebbe già un bel passo avanti. Ammessa l'esistenza del problema da parte di tutti, potremmo concentrare l'attenzione sull'ordine di grandezza del rischio (davvero solo temporaneo? E per il futuro si propone di vietare quel cumulo di cariche o no?) e sui benefici che si spera di ottenere nell'arco di tempo proposto. A quel punto potremmo più serenamente dividerci tra chi pensa che quel rischio valga la pena correrlo, e chi no
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    00 18/09/2007 15:07
    La Politica spaventata dalla piazza
    rinuncia al confronto sulle idee
    e mette i forconi in mano al popolo zotico





    Se il V-Day di Beppe Grillo deve farci preoccupare, di sicuro non è per la cosiddetta deriva populista, tanto temuta dalle segreterie di partito. L'Italia (e l'italiano) convivono con il virus del populismo sin dai tempi del ventennio fascista. Non ne siamo immuni, ma nemmeno schiavi: è come una vecchia gotta che ogni tanto si riacuisce, alla fine ci si abitua.

    Anche il disamore degli italiani per i partiti è cronico ma altalenante, e purtroppo non ci ha mai impedito di mandare al potere chi il potere è stato in grado di restituitirlo sotto forma di favoretti e clientelismi. Se durante Tangentopoli gli italiani osannavano i giudici e tiravano le monetine a Craxi, ora molti di quei provetti lanciatori votano compatti gente che canta l'osanna in excelsis per il martire di Hammamet, e definisce Mani Pulite un quasi golpe tentato dal potere giudiziario.

    Davvero, non ci sarebbe da preoccuparsi troppo se trecentomila italiani scendono in piazza a seguire le istanze forse sincere ma ogni tanto un po' facilone del blogger genovese. Quello che invece deve spaventare sono stati l'impreparazione e l'imbarazzo con cui i nostri politici hanno affrontato una manifestazione di piazza che - sebbene originale ed anche piuttosto accesa - non era certo una Tien An Men.

    Tutti, da sinistra a destra, si sono stretti a coorte, salendo sulla sedia come zitelle spaventate da un topolino. Grillo che vuole abbattere i partiti, Grillo che vuole smantellare lo Stato, Grillo che aizza le folle, neanche fossimo nelle periferie incendiate di Parigi.

    Tutti stizziti, pochi ad entrare nel merito delle proposte, giuste o sbagliate che siano.

    Il fatto che un incensurato sia automaticamente un grande amministratore è ovviamente una scemenza, ma se la classe politica fosse stata in grado di autolimitare almeno le sconcerie più scandalose - come i troppi parlamentari condannati in cassazione per reati gravi, come i privilegi immeritati e fuori da ogni proporzione - non si sarebbe arrivati a questo punto.

    Grillo propone l'amputazione della gamba, ed ovviamente esagera, ma non si può tacere che sinora la Politica non ha avuto il coraggio di bere neanche un cucchiaio di sciroppo, temendo fosse troppo amaro.

    Ora siamo arrivati alle liste civiche col bollino di qualità come le banane, ma avremmo potuto evitarlo - con grande sollievo del nostro senso del ridicolo - se ci si fosse saputi fermare un po' prima da soli.

    È stato poi commovente vedere come gran parte dei - bontà loro - leader nazionali siano caduti dalle ovattatissime nuvole in cui abitualmente risiedono, scoprendo con sbigottimento come talvolta non sia sufficiente controllare giornali, televisioni e consigli di amministrazione per evitare che la gente si parli, si raccolga, ed in ultima analisi decida di scrivere motu proprio l'agenda politica del giorno.

    Il mondo gira, le cose vanno avanti e cambiano a ritmo impazzito, tante pagine di storia e cambiamento vengono scritte e riscritte ogni giorno, ma loro sono ancora fermi lì, a cercare di cambiare il nastro della macchina per scrivere.

    Eppure, per far sfiatare la pentola che borbotta e trabocca sarebbe bastato poco, in fin dei conti. Sarebbe bastato affrontare di petto la questione della legge elettorale, unica situazione scandalosa che rende l'attuale situazione politica veramente diversa e più pericolosa di quella del passato.

    Sarebbe bastato, o forse ancora basterebbe, affrontare la genesi del Partito Democratico in maniera più seria e rispettosa dell'intelligenza altrui.

    Basta infatti scendere nel locale, e vedere come la corsa alla segreteria sarda sia diventata una vergognosa partita a rubamazzetto tra pochi, un gioco di veti incrociati ed attorcigliati in un ridicolo balletto di passi indietro accennati ma non fatti, proposti ma non raccolti.

    Di idee e di visioni, sinora nemmeno l'ombra. Tra presidenza della Regione e botteghe di partito ci si scanna per la prima fila, mentre - se davvero si avesse a cuore la cosa comune - basterebbe partecipare tutti alle primarie, mettendo sul piano i programmi concreti, e fidandosi dell'intelligenza e del discernimento dei cittadini.

    Invece no, si grida allo scandalo perchè - rebus sic stantibus - rischiamo di arrivare alle primarie senza un candidato unico ed unitario, lasciando quindi all'elettore una possibilità di scelta: un grado di libertà che - se non ci inganniamo - dovrebbe essere proprio il motivo primo di una competizione elettorale.

    Il popolo, se ne deduce, non può vagliare, non deve scegliere. Deve solo acclamare, può solo dire quanto è buono il menu fisso che gli è stato servito sul piatto.

    E allora, se si continua a trattare gli elettori come zotici ignoranti, non ci si sorprenda troppo se iniziano a saltar fuori le torce ed forconi.