Vladimiri Yashenko

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ugo.p
00venerdì 22 luglio 2011 07:52
ricordando un campione sfortunato
Biografia da wikipedia

Vladimir Il'ič Jaščenko in russo: Владимир Ильич Ященко[?] (Zaporižžja, 12 gennaio 1959 – Zaporižžja, 30 novembre 1999) è stato un atleta sovietico, dal 1992 ucraino, medaglia d'oro nel salto in alto ai Campionati Europei indoor di atletica a Milano 1978, e ai Campionati europei 1978 a Praga.

Dotato di un talento naturale non comune per il salto in alto, nel 1976 a soli 17 anni superò la misura di 2,22 m, e il 3 luglio 1977 a Richmond, nel corso di un incontro di atletica leggera tra le rappresentative juniores di URSS e USA stabilì il record mondiale saltando 2,33 m.

Uno degli ultimi saltatori in alto ad utilizzare lo stile ventrale, ai Campionati europei indoor di Milano il 12 marzo 1978 conquistò la medaglia d'oro fissando il nuovo record mondiale a 2,35 m. Nell'estate del 1978 vinse anche i Campionati europei di atletica con la misura di 2,30 m, ma fu costretto a una lunga sosta forzata l'anno dopo a causa di una lunga serie di operazioni al ginocchio.

La sua ultima apparizione agonistica avvenne nel 1983, quando riuscì faticosamente a superare la misura di 2,10 m, e dopo il ritiro visse con una modesta pensione da ex atleta[1] e dovette affrontare problemi di alcolismo.

A causa dell'alcolismo in cui cadde, si ammalò di cirrosi epatica, e conseguentemente di tumore al fegato, e morì il 30 novembre 1999 all'età di 40 anni.

ugo.p
00venerdì 22 luglio 2011 07:56
dal sito Sport Vintage
Il volo di Volodja. La storia di Vladimir Yashchenko
di Giuseppe Ottomano

www.sportvintage.it/2009/05/15/il-volo-di-volodja/

nel caso il link dovesse sparire ecco la copia della suddetta pagina




Vladimir Yashchenko

(12/01/1959 Zaporozhye, Unione Sovietica – 30/11/1999 Zaporozhye, Ucraina)

Oggi, straziati dal dolore, ti diciamo addio per sempre. Ma non dimenticheremo mai il tuo breve volo che la morte ha interrotto.
(Orazione funebre in memoria di Vladimir Yashchenko, da parte di Mikhail Mishin, ex saltatore ucraino)


Se non fosse stato per la canottiera rossa con il fregio della falce e martello sul petto, nessuno tra i duemila spettatori presenti allo stadio dell’Università di Richmond il 3 luglio 1977 avrebbe detto che quello era un sovietico. Aveva un’aria bohemién, capelli lunghi e scompigliati con un taglio alla moda, e un’espressione stranamente svagata. Niente a che vedere con lo stereotipo dell’atleta sovietico: anonimo, freddo e preciso come un automa.

Lo studente di educazione fisica Vladimir Ilych Yashchenko, Volodja per gli amici, già noto nell’ambiente per la propria disorganizzazione congenita, sembrava un’anomalia in quella squadra militarizzata. E al termine di quel sesto meeting di atletica tra le rappresentative juniores di Stati Uniti e Unione Sovietica, organizzato per esorcizzare le tensioni della guerra fredda, tentò la misura di 2,33 metri, un centimetro in più del record del mondo di salto in alto detenuto dal campione statunitense Dwight Stones. La tentò, praticando lo stile démodé dello scavalcamento ventrale, concepito negli anni trenta in sostituzione della goffissima sforbiciata, e sorpassato già da un decennio dalla tecnica dorsale, detta Fosbury, dal cognome dell’atleta americano che la lanciò per primo negli anni sessanta.

Al primo tentativo Vladimir Yashchenko riuscì a scavalcare nettamente l’asticella, stabilendo il nuovo record mondiale. Lo sparuto pubblico di Richmond vinse sia l’avversione per il nemico della guerra fredda che il torpore provocato dal caldo torrido dell’estate per alzarsi in piedi all’unisono, e diffuse per lo stadio un caloroso e lunghissimo applauso. Anche i cronisti sportivi, presi in contropiede, fecero fatica a trovare qualche informazione su quel giovanotto di 18 anni, sbucato fuori quasi dal nulla. Due settimane dopo, la rivista statunitense Sports Illustrated non aveva dubbi su quello che ne sarebbe stato di lui: “Ciò che nessuno mette in discussione è che il futuro del giovane Yashchenko sarà luminoso”.

La sua storia cominciò nella città industriale di Zaporozhye, nel sud dell’ex Repubblica Sovietica dell’Ucraina, dove era nato nel 1959 da un operaio metallurgico e da una portalettere. Giocava come titolare nella squadra di pallamano della scuola, e spesso nei fine settimana, quando c’era qualche gara ufficiale, si presentava al campo di atletica della città come inserviente, per aiutare a pulire il campo e spostare gli ostacoli dalla pista. Poi, quando tutto era finito, restava con gli altri ragazzini a imitare i campioni che aveva visto gareggiare poco prima. Ma, se non fosse stato per il fratello maggiore Anatoliy, che a undici anni lo convinse a iscriversi al centro di atletica di Zaporozhye, probabilmente sarebbe andato a ingrossare le file nel settore della metallurgia.



Il suo allenatore, Vasili Telegin, scoprì subito il suo talento. Si accorse che le caviglie di Volodja, più simili a molle che ad articolazioni, erano dotate di un’elasticità e di una dinamicità innate, come a predestinarlo alla disciplina del salto in alto. E intuì che, con quegli 83 chili distribuiti su 193 centimetri di statura e con quelle spalle un po’ incurvate a causa di una leggera forma di scogliosi, non avrebbe potuto fare troppa strada saltando con il fosbury. Gli insegnò così i segreti dell’ormai anacronistico e tecnicamente più complicato stile ventrale, lo stesso che utilizzava il campione sovietico degli anni sessanta Valeri Brumel, anche lui recordman ad appena 18 anni. Volodja, che da sempre lo aveva adottato come idolo, ne raccolse idealmente anche l’eredità sportiva. Ma per alcuni versi le loro storie di vita finirono per identificarsi tragicamente.

La progressione dei suoi risultati fu straordinaria. Dal primissimo salto di 1,45 m all’età di undici anni, arrivò a superare i due metri a meno di quindici, e a diciassette, in occasione delle Spartachiadi giovanili di Mosca 1976, realizzò il primato mondiale juniores con 2,22, fino ad arrivare a quello mondiale assoluto di Richmond di 2,33 nel 1977. Fu però nel 1978 che visse il proprio anno più esaltante. La sera del 12 marzo, durante i campionati europei indoor al Palasport di Milano, che sarebbe stato poi seppellito dall’interminabile nevicata del 1985, e gremito da ventimila persone, si vide la sua apoteosi in Eurovisione. Alle 20 e 22, dopo un’autentica via crucis di venti salti e quattro ore di gara, commettendo esitazioni sconcertanti anche a poco più di due metri, e tra imprecisioni ed errori inconcepibili per un componente di quella formidabile macchina da guerra sportiva che era la squadra sovietica, superò i 2,35 m all’ultimo tentativo. “La misura di un elefante” e “La misura di una cabina telefonica” titolarono rispettivamente la mattina dopo La Gazzetta dello Sport e Il Corriere della Sera. E questa sua impresa sarà cantata trenta anni dopo dagli Offlaga Disco Pax in “Ventrale”, una canzone, dal testo per la verità strampalato, in cui Vladimir Yashchenko verrà definito un “eroe da Terza Internazionale”.

Però, accantonata quest’ultima definizione improbabile, a Volodja gli eroismi non interessavano granché, e al termine di quella serata straordinaria salì sulle ampissime spalle del pesista Alexander Baryshnikov, per allontanarsi dai giornalisti, dai fotografi e dalla folla che avevano invaso il campo per portarlo in trionfo. Carico di euforia, uscì con i compagni a festeggiare alla sua maniera preferita, concedendosi una sbornia colossale in un tour enologico per le birrerie di Milano. E, siccome veniva facilmente riconosciuto dai milanesi che gli offrivano volentieri da bere, poté anche fare scorte di bottiglie di vino e birra nella capiente borsa da ginnastica, come souvenir d’Italie.

Milano, 12 marzo 1978 - Foto ITAR-TASS

Era stato sempre molto indulgente nel concedersi delle abitudini poco compatibili con il suo status di atleta. Oltre a lasciarsi andare a qualche libagione di troppo, fumava come un tubo di scappamento già dai tempi della scuola, e non cercava troppa stabilità nelle compagnie femminili. Anche vivendo in un sistema socialista, che non esaltava certo l’individualità e non tollerava forme di divismo, si era lasciato appiccicare ugualmente un’etichetta di play-boy. E grazie alla fama di campione sportivo e alla bellezza fisica non comune, arrivò a ricevere fino a tremila lettere al giorno dalle sue giovani ammiratrici.



Ma non soltanto le fanciulle dell’emisfero socialista si interessavano a lui. Anche gli scienziati aerospaziali sovietici presero a studiare approfonditamente il suo caso, arrivando alla conclusione che, viste le sue doti naturali di coordinazione e di plasticità nei movimenti, con un ulteriore miglioramento della tecnica, sarebbe potuto arrivare a saltare fino a 2 metri e mezzo. E Volodja per un po’ ci volle credere. Assistito, oltre che dall’omnipresente Vasili Telegin, anche dal guru sovietico del salto in alto Vladimir Dyachkov, si buttò negli allenamenti ad un ritmo da stakhanovista. Con la spettacolare elevazione del suo ventrale si esercitò in innumerevoli modi, anche spiccando salti altissimi da fermo.

Nel pieno di questa frenesia atletica arrivò a confessare di svegliarsi improvvisamente dal sonno, dopo avere sognato di saltare ancora. Ma, fatti salvi gli occasionali incubi notturni, durante tutta l’estate del 1978, praticamente la sua ultima stagione agonistica ad alto livello, la sua stella continuò a brillare. Il 16 giugno a Tbilisi portò il record mondiale all’aperto a 2,34, e in agosto conquistò la medaglia d’oro ai campionati europei di Praga, chiudendo l’estate in bellezza con una tournèe trionfale negli Stati Uniti e in Canada.

Al ritorno in Unione Sovietica gli venne proposto di trasferirsi a Mosca con tutti gli agi. Ma, come fece successivamente anche con altre offerte di trasferimento in Occidente, tra cui quella del suo collega ed amico polacco, Jacek Wszoła, olimpionico di Montreal 1976, rigettò questo invito. E con la serenità di chi ha preso una decisione ponderata, orbitò per sempre unicamente nei dintorni di Zaporozhye, senza desiderare mai per davvero di andarsene via.

Eppure, secondo quanto riferito al giornale sportivo Sovietsky Sport dal campione olimpico di Mosca 1980 nel getto del peso Vladimir Kiselev, Yashchenko seppe esibire anche inaspettate qualità da tribuno, quando durante i campionati europei indoor di atletica del febbraio 1979 a Vienna diede vita alla prima rivolta sportiva dell’era sovietica. E, strano ma vero per le condizioni storiche dell’epoca, gli atleti la ebbero vinta, ottenendo una quota più elevata di premi a discapito dei dirigenti sportivi. Volodja, che era ancora troppo popolare per rischiare ripercussioni da parte dei membri dell’apparato, minacciò addirittura di gettarsi dalla finestra della sua camera d’albergo, nell’ipotesi di mancato accoglimento delle richieste.



Contemporaneamente a questi eventi però, il suo ginocchio sinistro, estenuato dai troppi allenamenti, cominciò a dare i primi problemi, e dopo averlo visitato, i medici gli diagnosticarono la rottura dei legamenti crociati. Nonostante gli venne prescritto un periodo di assoluto riposo, nell’agosto del 1979 i massimi dirigenti di atletica lo prelevarono quasi con metodi da KGB dalla sua Zaporozhye per spedirlo irresponsabilmente a Kaunas, nell’attuale Lituania, dove si teneva il meeting di atletica leggera “Memorial Znamensky”, valevole per le selezioni della squadra sovietica alla Coppa del Mondo.

Nel freddo del Baltico, e sotto una pioggia infernale Volodja diede ancora una volta il meglio di sé. Sbaragliò tutti gli avversari, riuscendo a saltare 2,24 m. Ma questa volta lo sforzo andò oltre le sue possibilità, e atterrando sul materasso lanciò un gemito di dolore. Fu il suo canto del cigno, e per quel ginocchio, già compromesso, fu il colpo di grazia. Venne trasportato a Mosca d’urgenza, e qui operato due volte senza risultati. Poi ci riprovò andando sotto i ferri in una clinica specializzata di Vienna, dove rimase due mesi in fisioterapia. Ma anche questo intervento non diede gli esiti sperati, e fu costretto a rinunciare all’evento che agognava più di ogni altro, le Olimpiadi di Mosca 1980.


Milano, 12 marzo 1978

Il suo ginocchio veniva tenuto sempre sotto il controllo dei medici sportivi, e dopo un’ennesima riabilitazione, nella primavera del 1983 venne avvistato durante la sua ultima grottesca apparizione in una competizione riservata agli atleti militari all’interno di uno stadio alla periferia di Mosca. Volodja, appena reclutato per il servizio di leva e con i capelli rapati a zero, salì svogliatamente in pedana. Saltò 2,15 m, ma la sua rincorsa si era appesantita. Le sue gambe avevano smesso di volare in alto. Secondo il giornale russo Novaya Gazeta (quello sul quale scriveva la giornalista Anna Politkovskaya), che nel 2003 ha riportato una testimonianza di Valentin Gavrilov, medaglia di bronzo nel salto in alto alle olimpiadi di Città del Messico 1968, già in quel periodo Volodja era debilitato dalla dipendenza dall’alcol.

Dopo questa volta non riprovò mai più a saltare una misura maggiore, e nell’estate 1984, con un dispaccio di una sola riga, l’agenzia sovietica Tass annunciò il suo definitivo ritiro dalle competizioni agonistiche.

Negli anni che seguirono per Volodja cominciò un lungo oblio, e alla fine dei ventiquattro mesi di naia, trascorsi non troppo lontano da casa e in un reparto di lusso, quale era quello dell’arma sportiva, il suo grande appartamento di Zaporozhye, riservato ai membri dell’élite, gli venne ritirato. Andò così a vivere in un altro, situato in un quartiere alveare in periferia, e decisamente più piccolo e angusto, insieme all’anziana madre ed al fratello Anatoliy, rimasto invalido a causa di una caduta sul ghiaccio.

Nella sua nuova vita post agonistica intervallava periodi durante i quali tornava al campo sportivo a lavorare come preparatore atletico, ad altri, che col tempo diventarono sempre più frequenti, in cui rimaneva disoccupato. I dirigenti sovietici di atletica, questa volta in panni caritatevoli, gli proposero invano di dirigere una scuola sportiva.

Nonostante si tenesse a debita distanza dal lavoro e dalle responsabilità, era pur sempre dotato di una mente versatile e assetata di curiosità, e coltivava interessi diversificati. Trascorreva buona parte dell’interminabile tempo libero a leggere classici russi, a studiare le lingue straniere e a preparare gli esami di educazione fisica, dove in breve tempo sarebbe riuscito a laurearsi. Per il resto, oltre a suonare la chitarra e scrivere canzoni, coltivò l’altra sua grande passione dell’archeologia, unendosi, spesso e volentieri, alle squadre di sommozzatori che dragavano il fiume Dnepr alla ricerca di reperti cosacchi del XVII secolo.


Milano, 12 marzo 1978

Ma i suoi problemi al ginocchio, quasi come una metastasi indiretta, erano arrivati a lambire il sistema nervoso. E tra letture impegnate, ozio e noia, venne colpito anche da un breve periodo di depressione, durante il quale venne ricoverato per una settimana in una clinica psichiatrica. Al ritorno a casa la situazione peggiorò, e Volodja si lasciò trasportare ancora più profondamente dalla sua passione più pericolosa, la vodka, quasi un oppio legalizzato nell’Unione Sovietica al crepuscolo. Essendo di carattere piuttosto fragile, trovò nell’alcol un anestetico alle frequenti tensioni nervose. E come se non bastasse, confidò più volte agli amici di provare un rimpianto doloroso per i giorni di gloria in cui era trattato come un divo.

Fedele fino in fondo al proprio spirito genuinamente libertino, non mise mai la testa a partito. E dalle numerose relazioni sentimentali che intrattenne, gli nacquero, da due donne diverse, due figli legalmente riconosciuti. Ma è probabile che almeno con uno di questi non avesse un rapporto idilliaco, dal momento che il quotidiano sportivo russo Sport Express non ne riferì neppure la presenza ai suoi funerali.

Quando poi nel 1991 la stessa Unione Sovietica cessò di esistere, Yashchenko stava già precipitando nel baratro dell’alcolismo, e anche la notizia dell’indipendenza dell’Ucraina lo lasciò, con ogni probabilità, del tutto indifferente. Dopo la sua morte, avvenuta in un fatiscente ospedale di Zaporozhye nel novembre 1999 per un cancro al fegato come conseguenza di una cirrosi epatica mai curata (oltre al lavoro e ai giornalisti, tendeva ad evitare come la peste anche i dottori), l’agenzia Interfax-Ucraina confermò che aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita in condizioni di estrema indigenza e in preda all’alcolismo cronico. Secondo le dichiarazioni del suo ex insegnante di ginnastica, riportate dalla rivista ucraina Fakty i Kommentarii alla fine del 2002, negli ultimi tempi era dimagrito paurosamente, ed anche la sua espressione sembrava stranamente assente, come se avesse perduto irrimediabilmente la propria linfa vitale.

Due mesi e mezzo prima di morire, al termine di una manifestazione sportiva venne avvicinato quasi a tradimento dal giornalista del quotidiano Industrialnoye Zaporozhye, Dimitry Shilin. Trasandato nei vestiti, e con le mani in tasca tutto il tempo, come ad ostentare l’insofferenza per l’intervista, Yashchenko affermò di continuare a ricevere inviti a presenziare alle grandi competizioni di atletica, che spesso però declinava. Il giornalista gli chiese di posare per alcune fotografie, ma Volodja cercò di sottrarvisi. Non amava più essere fotografato. Anche il suo aspetto era cambiato. Ed uno dei suoi occhi non poteva più aprirsi a causa di una disfunzione dei nervi sopravvenuta durante la malattia che lo stava consumando. Quando poi gli venne domandato se stesse lavorando in quel periodo, senza mezzi termini, rispose di no. Gli venne chiesto allora a quanto ammontava la sua pensione di ex atleta, ma questa volta non diede neppure una risposta. Fu invece il quotidiano britannico The Independent a rivelarne impietosamente l’ammontare: 250 Grivnie ucraine al mese, l’equivalente di meno di 100 Euro dei nostri giorni.

*Un particolare ringraziamento a Dimitry Shilin, inviato speciale del quotidiano ucraino Industrialnoye Zaporhozye, che mi ha cortesemente fornito una preziosa testimonianza su Vladimir Yashchenko.




labandadeglionesti
00venerdì 22 luglio 2011 15:43
[SM=x875367] poveraccio. che sfiga a 18 anni fare il record del mondo e poi bruciarsi la vita in quel modo.
certo quanti ce ne sono tanti di campioni finiti in miseria o alcolizzati dopo aver avuto un passato luminoso.
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