Solidarietà, ma poca efficienza Una nuova ricerca lo critica così

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vanni-merlin
00venerdì 16 giugno 2006 20:21
Commercio equo


Solidarietà, ma poca efficienza Una nuova ricerca lo critica così


Da Milano Emanuela Zuccalà

Non più solo caffè e cioccolato: nell'ultimo anno, gli italiani appassionati della spesa equa e solidale hanno premiato soprattutto il riso e la frutta fresca, facendone lievitare le vendite del 238% e del 110%. Nello stesso periodo i prodotti a marchio TransFair sono cresciuti da un valore di 8 milioni di euro a 30. E il 27% delle 485 "botteghe del mondo" registra un fatturato in aumento. Ma da noi lo shopping solidale con il Sud del mondo resta un fenomeno di nicchia, con un fatturato di appena 97 milioni di euro (le catene della grande distribuzione, per fare un paragone, veleggiano su cifre a nove zeri), un personale di 4.500 volontari a fronte di soli 730 dipendenti, e una grande spinta ideale che non si traduce in un vero successo commerciale? Al quesito tenta di rispondere la prima indagine nazionale sul settore, «Il commercio equo e solidale in Italia. Analisi e valutazione di un nuovo modello di sviluppo», che viene presentata questa mattina all'Università Cattolica di Milano. L'ha realizzata Gian Paolo Barbetta, docente di Economia (e volontario in una bottega del mondo), in collaborazione con il dipartimento di Economia politica dell'Università Bicocca. Un quadro in chiaroscuro che, a fronte di una crescita costante del settore, ne evidenzia i punti dolenti: poca organizzazione; divisione tra i diversi soggetti (solo una delle dieci centrali d'importazione italiane collabora con il certificatore TransFair); botteghe del mondo che somigliano più a centri di animazione culturale che a esercizi commerciali; difficoltà d'incidere in modo significativo sullo sviluppo delle comunità del Sud del mondo da cui si importano caffè, banane e zucchero a condizioni rispettose dei diritti. E poi un'anomalia tutta italiana: «I prodotti si vendono soprattutto nelle botteghe - spiega Barbetta - e non sempre si tratta di un canale efficace. Nei Paesi europei dove il commercio equo è più diffuso, come Germania e Gran Bretagna, è la grande distribuzione a prevalere. È vero, la bottega fa molto di più che vendere: promuove cultura e sensibilizzazione sui valori dell'economia solidale, però non deve porsi come alternativa al supermercato, che può raggiungere un maggior numero di consumatori». Altra questione, la trasparenza: a volte scarseggia, e sarà anche per questo che ogni italiano, in media, spende meno di due euro l'anno per rifornirsi di equo e solidale. «Le centrali d'importazione tendono ad autocertificarsi - prosegue l'autore dello studio - e questo è rischioso: la possibilità stessa di esistere del commercio equo si basa sulla fiducia dei consumatori verso i criteri che ispirano tutta la filiera produttiva. Inoltre, gli importatori sono tutti, eccetto Ctm-Altromercato, di piccolissime dimensioni: gli scarsi volumi possono far aumentare i prezzi e penalizzare la specializzazione per filiere di prodotto. Che poi si traduce in un impatto modesto sul tessuto sociale ed economico dei produttori del Sud del mondo». Quanto la banana del Perù o il caffè del Nicaragua comprati in Italia influiscano sulle piccole economie locali sarà l'oggetto di un'ulteriore indagine che Barbetta ha già avviato su 30 casi specifici: «Non c'è mai stata una misurazione attendibile dei vantaggi reali per i piccoli produttori. Ci si ferma agli aneddoti, e questo è un altro motivo di divisione fra gli attori del commercio equo: le centrali d'importazione dicono di fare cooperazione allo sviluppo nei Paesi poveri e accusano le organizzazioni legate solo alla certificazione di non agire in questa direzione. Occorrono verifiche trasparenti e testabili». Dopo un'analisi dettagliata della galassia delle botteghe del mondo (associazioni, cooperative e società diffuse soprattutto al Nord, alcune ancora vittime della retorica del "piccolo è bello"), Barbetta propone qualche strategia affinché il commercio equo non si ammali di claustrofobia: «Prima di tutto sviluppare la rete distributiva - dice -, coltivando alleanze finanziarie con altri operatori commerciali pu r lasciando alle botteghe i contenuti valoriali e culturali. E poi saper finalmente illustrare i benefici del commercio equo e solidale ai consumatori, con uno sforzo di confronto e dialogo tra i vari soggetti coinvolti e la ricerca di interlocutori istituzionali». Una proposta di legge per regolamentare lo scambio giusto con il Sud del mondo è già stata elaborata: e in questo caso, le botteghe, gli importatori e i certificatori sono stati uniti.

da: www.avvenire.it/

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