Karol Wojtyla beato. "Guarderanno colui che hanno trafitto"

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auroraageno
00domenica 1 maggio 2011 17:16





Karol Wojtyla beato. "Guarderanno colui che hanno trafitto"

Oggi quasi tutti lo ammirano. Ma in vita fu osteggiato e irriso da molti, anche dentro la Chiesa. La sua santità è la stessa dei martiri. La sua beatitudine è la stessa di Gesù sulla croce

di Sandro Magister


ROMA, 1 maggio 2011 – In polacco diceva di sé negli ultimi anni: "Sono un biedaczek, un poveraccio". Un povero vecchio malato e sfinito. Lui così atletico, era diventato l'uomo dei dolori. Eppure la sua santità proprio allora cominciò a splendere, dentro e fuori la Chiesa.

Prima no, papa Karol Wojtyla era ammirato più come eroe che come santo. La sua santità cominciò a conquistare le menti e i cuori di tanti uomini e donne di tutto il mondo quando gli capitò quello che Gesù aveva profetizzato per la vecchiaia dell'apostolo Pietro: "In verità io ti dico: quando eri giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi".

Con l'essere ora proclamato beato, Giovanni Paolo II svela al mondo la verità del detto di Gesù: "Beati i poveri perché di essi è il regno dei cieli".

Egli non irradiò santità nell'ora dei suoi trionfi. Molti degli applausi che raccoglieva quando percorreva il mondo a ritmi mozzafiato erano troppo interessati e selezionati per essere sinceri. Il papa che faceva crollare la cortina di ferro era benedizione agli occhi dell'Occidente. Ma quando si batteva in difesa della vita di ogni uomo che nasce su questa terra, in difesa della vita più fragile, più piccola, la vita di chi è stato appena concepito ma già il suo nome è stato scritto in cielo, allora pochi l'ascoltavano e molti scuotevano il capo.

La storia del suo pontificato è stata per lo più a luci ed ombre, accolta e respinta, con forti contrasti. Ma il suo profilo dominante, per molti anni, non è stato quello del santo, ma del combattente. Quando nel 1981 sfiorò la morte, colpito non si sa ancora bene perché, il mondo si inchinò riverente. Osservò il minuto di silenzio, per riprendere subito dopo la vecchia musica, poco amica.

Di lui molti diffidavano anche dentro la Chiesa. Per tanti era "il papa polacco", rappresentante di un cristianesimo antiquato, antimoderno, di popolo. Di lui guardavano non la santità ma la devozione, che non andava a genio a chi sognava un cattolicesimo interiore ed "adulto", tanto amichevolmente immerso nel mondo da diventare invisibile e silenzioso.

Eppure, a poco a poco, dalla scorza del papa atleta, eroe, combattente, devoto, cominciò a svelarsi anche la santità.

Fu il giubileo, l'anno santo del 2000, il momento di svolta. Papa Wojtyla volle che fosse anno di pentimento e perdono. La prima domenica di Quaresima di quell'anno, il 12 marzo, officiò sotto gli occhi del mondo una liturgia penitenziale senza precedenti. Per sette volte come i sette vizi capitali confessò le colpe commesse dai cristiani secolo dopo secolo, e per tutte chiese perdono a Dio. Sterminio degli eretici, persecuzione degli ebrei, guerre di religione, umiliazione delle donne... Il volto dolente del papa, già segnato dalla malattia, era l'icona di quel pentimento. Il mondo lo guardò con rispetto. Ma anche con derisione. Giovanni Paolo II si espose, inerme, a schiaffi e sberleffi. Si lasciò flagellare. C'era chi da lui pretendeva ogni volta altri pentimenti, per altre colpe ancora. E lui per tutto si batteva il petto.

Di sicuro, però, mai chiese pubblicamente perdono per gli abusi sessuali commessi da sacerdoti su dei bambini. Ma neppure si ricorda che qualcuno sia mai saltato su nel 2000 a rimproverargli questa omissione. Lo scandalo non era ancora tale, per i distratti maestri d'opinione d'allora. Oggi sì, gli stessi che allora tacquero l'accusano di quel silenzio, l'accusano d'essersi lasciato irretire da quel prete indegno che fu Marcial Maciel. Ma sono accuse postume che grondano ipocrisia.

A capire che cosa c'era di vero nella santità di quel papa sono stati i milioni e milioni di uomini e donne che alla sua morte gli hanno tributato il più grandioso "grazie" collettivo mai dato a un uomo nell'ultimo secolo. I capi di stato e di governo di quasi duecento paesi che accorsero a Roma alle sue esequie lo fecero anche perché non potevano sottrarsi a quell'ondata di ammirazione che invadeva il mondo.

Ma quel suo giubileo del 2000, Giovanni Paolo II volle che fosse anche l'anno dei martiri. Gli innumerevoli martiri, molti senza nome, uccisi in odio alla fede in quel "Dominus Iesus" che il papa volle riaffermare come unico salvatore di tutti, per i tanti che se n'erano dimenticati.

E il mondo questo intuì: che nella figura dolente del papa c'era la beatitudine promessa da Dio ai poveri, agli afflitti, agli affamati della giustizia, agli operatori di pace, ai misericordiosi. Il papa irriso, osteggiato, sofferente, il papa che pian piano perdeva l'uso della parola condivideva la sorte che Gesù aveva annunciato ai suoi discepoli: "Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia".

Le beatitudini sono la biografia di Gesù e quindi di chi lo segue con cuore puro. Sono l'immagine del mondo nuovo e dell'uomo nuovo che Gesù ha inaugurato, il rovesciamento dei criteri mondani.

"Guarderanno colui che hanno trafitto". Come sotto la croce, molti vedono oggi in Karol Wojtyla beato un anticipo di paradiso.


[Questo commento è stato scritto da Sandro Magister per "La Tercera", il primo quotidiano del Cile, e pubblicato nel giorno della beatificazione di Giovanni Paolo II, il 1 maggio 2011].


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DALL'OMELIA DELLA MESSA DI BEATIFICAZIONE DI GIOVANNI PAOLO II

di Benedetto XVI


Cari fratelli e sorelle, [...] questa domenica è la seconda di Pasqua, che il beato Giovanni Paolo II ha intitolato alla Divina Misericordia. Perciò è stata scelta questa data per l’odierna celebrazione, perché, per un disegno provvidenziale, il mio predecessore rese lo spirito a Dio proprio la sera della vigilia di questa ricorrenza. [...]

“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20, 29). Nel Vangelo di oggi Gesù pronuncia questa beatitudine: la beatitudine della fede. Essa ci colpisce in modo particolare, perché siamo riuniti proprio per celebrare una beatificazione, e ancora di più perché oggi è stato proclamato beato un papa, un successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede. Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica. E subito ricordiamo quell’altra beatitudine: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16, 17). Che cosa ha rivelato il Padre celeste a Simone? Che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Per questa fede Simone diventa “Pietro”, la roccia su cui Gesù può edificare la sua Chiesa.

La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: “Beato sei tu, Simone” e “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l’edificazione della Chiesa di Cristo.

Ma il nostro pensiero va ad un’altra beatitudine, che nel Vangelo precede tutte le altre. È quella della Vergine Maria, la Madre del Redentore. A lei, che ha appena concepito Gesù nel suo grembo, santa Elisabetta dice: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1, 45). La beatitudine della fede ha il suo modello in Maria, e tutti siamo lieti che la beatificazione di Giovanni Paolo II avvenga nel primo giorno del mese mariano, sotto lo sguardo materno di colei che, con la sua fede, sostenne la fede degli apostoli, e continuamente sostiene la fede dei loro successori, specialmente di quelli che sono chiamati a sedere sulla cattedra di Pietro.

Maria non compare nei racconti della risurrezione di Cristo, ma la sua presenza è come nascosta ovunque: lei è la Madre, a cui Gesù ha affidato ciascuno dei discepoli e l’intera comunità. In particolare, notiamo che la presenza effettiva e materna di Maria viene registrata da san Giovanni e da san Luca nei contesti che precedono quelli del Vangelo odierno e della prima lettura: nel racconto della morte di Gesù, dove Maria compare ai piedi della croce (cfr Gv 19, 25); e all’inizio degli Atti degli Apostoli, che la presentano in mezzo ai discepoli riuniti in preghiera nel cenacolo (cfr At 1, 14). [...]

Cari fratelli e sorelle, [...] nel suo Testamento il nuovo beato scrisse: “Quando nel giorno 16 ottobre 1978 il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il primate della Polonia card. Stefan Wyszynski mi disse: 'Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel terzo millennio'”. E aggiungeva: “Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l’eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato”.

E qual è questa “causa”? E’ la stessa che Giovanni Paolo II ha enunciato nella sua prima messa solenne in Piazza San Pietro, con le memorabili parole: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. Quello che il neo-eletto papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile.

Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia di libertà.

Ancora più in sintesi: ci ha ridato la forza di credere in Cristo, perché Cristo è "Redemptor hominis", redentore dell’uomo: il tema della sua prima enciclica e il filo conduttore di tutte le altre.

Karol Wojtyla salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo “timoniere” il servo di Dio Papa Paolo VI, Giovanni Paolo II ha guidato il popolo di Dio a varcare la soglia del terzo millennio, che proprio grazie a Cristo egli ha potuto chiamare “soglia della speranza”.

Sì, attraverso il lungo cammino di preparazione al grande giubileo, egli ha dato al cristianesimo un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia. Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di “avvento”, in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace. [...]

Beato te, amato papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua – ti preghiamo – a sostenere dal cielo la fede del Popolo di Dio. Amen.


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UN TESTIMONE: "COSÌ HA SALITO IL SUO CALVARIO"

Dall'intervista di Alberto Gasbarri, organizzatore dei viaggi di Giovanni Paolo II, a "L'Osservatore Romano" del 30 aprile 2011


... [Papa Karol Wojtyla] volle sfidare la sua stessa infermità pur di pregare sul Golgota. In occasione del grande Giubileo del 2000, ci chiese infatti di tornare in Terra Santa. Era in condizioni di salute piuttosto critiche e aveva grandi problemi di mobilità, quindi dovemmo tenere in considerazione il suo stato fisico nella preparazione del viaggio. D’accordo con don Stanislao, quando si pensò di fare la visita al Santo Sepolcro, escludemmo che potesse salire sino al Golgota poiché la scala di accesso è talmente stretta e ripida da non consentire l’aiuto a una persona che abbia delle difficoltà. Nelle condizioni del papa dunque era impossibile.

La visita si sviluppò lungo nove densissime e faticose giornate. Al momento di lasciare la residenza del patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah – dove il pontefice era stato ospite prima del congedo – per raggiungere l’aeroporto e partire per Roma, mi accorsi che, nonostante la testa del corteo si fosse mossa, la macchina vhe aveva a bordo Giovanni Paolo II era ferma. Don Stanislao mi chiamò per dirmi che il papa chiedeva di poter tornare al Santo Sepolcro e di andare a pregare sul Golgota. Per le rigidissime forze di sicurezza israeliane non c’erano dubbi: era impossibile e da escludere assolutamente perché tutte le misure di protezione erano state rimosse, i negozi della città vecchia erano riaperti e i pellegrini avevano già invaso quella parte della città. Dunque non c’erano assolutamente le condizioni per realizzare quel desiderio. Lo spiegai a don Stanislao e al pontefice. A quel punto Papa Wojtyla prese il braccio del segretario e disse: "Se non vado a pregare sul Golgota, non posso partire da Gerusalemme". Dal suo sguardo capii che non c’erano alternative. Lo feci presente alle autorità competenti. Dovevano scegliere: o avere il papa fermo in mezzo alla strada per chissà quanto tempo o puntare sulla sorpresa e portarlo al Golgota.

D. – E salì sul colle?

R. – Sino alla cima. Con grande difficoltà raggiungemmo il Santo Sepolcro. Lì ho vissuto un momento che mai dimenticherò. Il papa non camminava quasi più, si teneva a malapena in piedi e non riusciva a procedere da solo. Lì davanti a quella scala, però, raccolse tutte le sue poche forze residue e si aggrappò ai corrimano. Cominciò a salire lentamente. Lo precedevo camminando all’indietro per controllarlo. Il solerte e fedele comandante della gendarmeria pontificia, Camillo Cibin, era dietro, pronto a sorreggerlo in caso di difficoltà. Ho visto il volto di Giovanni Paolo II trasfigurarsi per la sofferenza a mano a mano che saliva. Non ebbi la percezione del tempo che impiegammo a salire quei venticinque gradini. Mi sembrò un’eternità. In cima non c’era neanche un inginocchiatoio. Appena giunto crollò in ginocchio sul lastricato per la stanchezza. Era ai piedi dell’altare di marmo del Golgota. Rimase in quella posizione a lungo, assorto nella preghiera. Non dimenticherò mai quell’immagine, mai. Anzi, ogni volta che arriva il periodo di Pasqua e penso alla passione di Cristo, rivedo il volto di Wojtyla mentre sale le scale del Golgota. È stato impressionante. Dopo aver pregato disse: "Adesso possiamo andare"...


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