"Giuda"

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marco panaro
00lunedì 18 settembre 2006 21:46
Cassazione Sezione Quinta Penale n. 29935 del 12 settembre 2006, Pres. Nardi, Rel. Vessichelli

Angelo P., responsabile di una sezione locale del partito di Alleanza Nazionale ha fatto affiggere nella bacheca della sezione, un manifesto con il quale ha definito Sante C. e Tiziana S., consiglieri comunali eletti nelle liste dello stesso partito, “giuda” nonché “traditori” degli elettori in quanto costoro si erano dissociati dalla linea ufficiale del partito. Le persone oggetto di questo attacco hanno presentato querela per diffamazione. Il Tribunale di Viterbo ha ravvisato la sussistenza del reato ed ha pertanto condannato Angelo P. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Roma che ha ritenuto che Angelo P. abbia esercitato il diritto di critica ed ha pertanto escluso l’esistenza del reato.

La Suprema Corte (Sezione Quinta Penale n. 29935 del 12 settembre 2006, Pres. Nardi, Rel. Vessichelli) ha rigettato il ricorso delle parti civili, richiamando il suo costante orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto di critica sancito dall’art. 21 Cost. consente, nel corso delle competizioni politiche o sindacali, toni aspri di disapprovazione e il limite di tale condotta è dato dalla condizione che la critica non trasmodi in attacco personale portato direttamente alla sfera privata dell’offeso e non sconfini nella contumelia e nella lesione della reputazione dell’avversario. A questi principi – ha affermato la Cassazione – la Corte di Roma si è attenuta spiegando le ragioni per le quali ha ritenuto che l’affissione del manifesto e la definizione delle parti civili come “giuda” non fossero da intendere come attacco personale, ma come atto politico dell’imputato; questi infatti, nella veste di commissario di una sezione di un partito politico, aveva intesto portare a conoscenza degli elettori la scelta, altrettanto politica, delle parti civili di dissociarsi dalla linea ufficiale del gruppo, ponendosi anche nelle condizioni di subire una successiva espulsione dal partito. In tale cornice – ha affermato la Corte – la comunicazione riguardava un tradimento a connotato chiaramente politico e del tutto scevro da profili di corruttela, dai quali il termine “giuda”, nell’uso comune, è ormai disancorato.
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